Si sono finalmente riaccesi i riflettori su scuola e università. Lo ha fatto, del tutto involontariamente, il Ministro Gelmini. Da anni politici, intellettuali, giornalisti, sprecano fiumi d’inchiostro per predicare la centralità del sapere per lo sviluppo del Paese, per la crescita sociale e civile dell’Italia. Fin’ora è stata solo la retorica di una politica senza capacità di riforma e di visione.
Se volete, il problema è semplicissimo: ciascuno schieramento politico, in un Paese in emergenza permanente, è spinto a badare alle contingenze elettorali: è disponibile a spendere risorse economiche e credibilità alla sola condizione di un immediato ritorno elettorale. Ragione per cui è meglio, quando si può, mettere una mancia di qualche euro in tasca subito agli italiani che non progettare investimenti a lungo termine. Il sapere, per inciso, è esattamente quello che si definisce un investimento a lungo termine. Innalzare l’obbligo scolastico, finanziare l’autonomia degli istituti e delle università, investire sulla ricerca, non ha un immediato ritorno elettorale; vedere i risultati di queste scelte significa aspettare anni. Ma significa anche cambiare il volto di un paese, riaffermare un’idea di futuro, consegnare a chi verrà dopo una società più giusta. Tutto quello che in Italia la politica non sa e non vuole fare, tutto quello che la sinistra dovrebbe fare.
Il Ministro Gelmini ha deciso di trattare il sapere come un arido capitolo di bilancio sul quale risparmiare risorse. Ha in testa un modello educativo costruito sulla centralità del risparmio. Tornare al maestro unico significa risparmiare affermando un modello di scuola antiquato, dove un maestro corrisponde ad una sola verità, e dove il tempo pieno rischia di non esserci più. Separare gli studenti italiani dagli extracomunitari è una stupidaggine che puzza di razzismo e che uccide la scuola dell’integrazione e le esperienze importanti cresciute nell’ombra, ma che consentirebbero a questo Paese di evitare il dramma delle banlieues francesi. Trasformare le università italiane in fondazioni di diritto privato significa non solo voler tagliare la spesa, significa non aver capito che l’autonomia egli atenei italiani funziona se gli organi di governo sono democratici, cosa che un ente privato non garantisce. Per non parlare del diritto allo studio che non c’è, dei tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario, delle tasse universitarie che, con le fondazioni, sarebbero fuori controllo.
Mi spaventerei se tacessimo, se lasciassimo al solo sindacato i compito di fare muro, se accettassimo l’idea che, essendo un problema di risorse, riguarderebbe solo i docenti e la loro controparte al governo. Siamo di fronte invece ad una questione cruciale per l’Italia, dove scuola e università riproducono esattamente le condizioni sociali delle famiglie di provenienza degli studenti, senza modificarle minimamente. Dove la crescita economica o non è sviluppo o non c’è, dove il lavoro che esprime valore aggiunto e qualità è un privilegio per pochi fortunati.
l 25 ottobre il sapere dovrà stare in cima all’agenda del Partito democratico che va in piazza per parlare all’Italia, magari anche a quelle migliaia di studenti che in questi giorni stanno facendo assemblee nelle loro scuole e nelle loro università, che le stanno autogestendo o occupando. Tanti di loro sono o saranno Giovani democratici, pur non avendo tessera, se riusciremo insieme ad offrire un’idea alternativa di Paese, partendo dal diritto al sapere, dalla riforma della didattica, dal rafforzamento della loro presenza nei luoghi in cui si decide nelle scuole e nelle università. Da qui si deve partire per costruire l’Italia dei meriti e dei talenti di cui abbiamo parlato in campagna elettorale.
Forse così un giorno non sarà più retorica.
Fausto Raciti
Candidato segretario dei Giovani Democratici
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