venerdì 23 gennaio 2009

Una riflessione di pace..

Scrivere di gente che soffre e che muore per una ragione a volte oscura, sconosciuta e sicuramente lontana anni luce dalla nobiltà e dal patriottismo mi spaventa. Persino il fiato e le parole che si consumano mi sembrano senza rispetto. Non ho voglia di usare numeri, e non mi sembra giusto parlare di morti palestinesi e di morti israeliani, perché si parla di morti, di gente che non ha scelto il suo destino, che ha la sola colpa di essere nata in un luogo privo di ogni senso ormai.

Una sola cosa mi ha spinto a scrivere; pochi mesi fa una persona a me cara, ha deciso di fare un viaggio, un viaggio vero, non una vacanza, per ritrovare quella spiritualità che nel quotidiano si perde, che le sventure della vita ti portano via. Un viaggio a Gerusalemme e un percorso intenso, fino al Sinai in Egitto. Il rientro a casa con il cuore gonfio di emozione e un souvenir per me, uno di quei cofanetti in legno che molti di noi hanno, sul comodino o sulla scrivania, con un particolare però, una incisione, I Love Israel. Un I love americano, il classico I love con il cuore che si vede sulle t-shirt, sulle borse e su qualsiasi altro oggetto newyorkese.

Ho preso il cofanetto e l’ho conservato con cura ma ancora adesso ho mille dubbi, occupa pochi centimetri e mi sembra più ingombrante della mia stessa casa, la verità è che avrei preferito un cofanetto senza incisione, avrei preferito un cofanetto con un incisione differente, magari il nome dell’uomo che lo ha intagliato, o il nome del suo bambino.

Quello che non riesco a spiegarmi è come tutto questo sia possibile e soprattutto se possibile sia ancora credere nella fine dell’orrore. Questa non è una favola e non ci sono magie, non ci sono bacchette, non ci sono fate buone. Tutti dovrebbero avere, per lo meno, il coraggio di assumersi le proprie responsabilità ormai vecchie di anni e anni. Perché Israele è stato tante cose, Regno di Israele, Regno di Giuda, protettorato persiano, provincia romana e poi Palestina, si, Palestina, Israele e Palestina, la stessa cosa, tutto e niente, il muro del pianto, sacro agli ebrei, le moschee, luogo di culto musulmano e il santo sepolcro, cristiano. Tutto per alcuni, niente per altri.

Secoli di diaspora, poi il Sionismo ed ecco di nuovo la terra promessa, il sogno questa volta, non di un popolo ma di una nazione.

Tutti abbiamo diritto a un posto su questa terra, e tutti meritiamo di vivere dove le nostre radici scendono più in profondità ma questo non significa cancellare il resto, non si può fare a spese degli altri, non si può fare rompendo equilibri e creando nuovi assi. Perché non è giusto reagire a una ingiustizia con una ingiustizia più grave.

Ma questa è solo la banale riflessione di una persona qualsiasi, chi invece aveva il dovere di riflettere e di decidere per gli Israeliani, i Palestinesi, gli Arabi, lo ha fatto male, ha pensato al proprio tornaconto, ha pensato alla propria economia, alla propria stabilità. La mia condanna va innanzitutto alla Gran Bretagna del ministro Balfour, alla sua ambiguità, a quel “National Home” del 1917 concesso agli Israeliani in territorio palestinese, senza ordine, senza regole, senza consenso. In secondo luogo alla debolezza della Società delle Nazioni che affidò l’intero mandato alla Gran Bretagna non comprendendo la gravità del problema e sottovalutando la reazione ostile che le popolazioni arabe insediatesi avrebbero avuto. Dopo di che gli errori si sono rincorsi, l’imposizione di uno Stato, nel 1947, decisa a un tavolo, senza alcuna concertazione, l’abbandono prematuro dell’Inghilterra, la guerra del ’48, la Crisi di Suez, la nascita dell’OLP, e ancora la Guerra dei 6 giorni nel ‘67.

Negli anni a seguire l’inasprimento della guerriglia e i primi tentativi di dialogo, gli accordi di Camp David, e la prima intifada, un susseguirsi di eventi, morti e rivendicazioni. Il Nobel a Shimon Peres, Itzhak Rabin e a Yasser Arafat per aver sottoscritto gli Accordi di Oslo con la mediazione degli Usa, guidati da Clinton e la nascita di Hamas, grandi passi verso la pace, e passi altrettanto grandi nel senso contrario.

Gli accadimenti di questi giorni dimostrano quanto ancora lontano sia il tempo in cui Palestinesi e Israeliani siederanno allo stesso tavolo, frequenteranno le stesse università, percorreranno le stesse strade, e non basta sperare nella pace, è doveroso costruirla. Ciò che mi auguro è che questa tregua sia davvero l’ultima, che non ci siano più azioni e reazioni, giuste o spropositate, e mi auguro che le speranze che tutti noi abbiamo riposto nel nuovo presidente degli Stati Uniti non siano deluse, mi auguro naturalmente che anche l’Europa abbia un ruolo di maggiore peso.

Vittoria Purtusiello

Membro costituente regionale GD Basilicata

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