lunedì 22 dicembre 2008

L'intervento del segretario Nazionale Fausto Raciti alla prima assemblea Nazionale dei Gd

Cari Giovani democratici,
siamo arrivati alla prima meta.
Oggi, con questa prima assemblea nazionale, inizia la nostra storia, quella della più grande organizzazione giovanile di questo Paese. Una storia nuova, la nostra pagina bianca su cui scrivere insieme. Vi ringrazio per la vostra presenza, che smentisce le fosche previsioni di qualcuno e che mette in luce come tutti noi sentiamo la responsabilità del compito che ci aspetta.

Il 21 novembre più di centomila ragazzi hanno deciso di dedicare tre minuti del proprio tempo per lanciare un messaggio: noi ci siamo e vogliamo riprenderci la parola.

Quella stessa parola che è ogni giorno negata ad una generazione che viene spesso raccontata, ed in mille modi diversi, ma che quasi mai è messa in condizione di raccontarsi da sé. Ma di una generazione che quando lo fa stupisce. Perché stupiscono i numeri delle nostre primarie, frutto della passione di migliaia di ragazzi che con questa prova di democrazia si sono cimentati. Perché ha stupito l'Onda, che, nel corso di questi mesi ha riempito le pagine dei giornali per via dei propri numeri, ma che ha sorpreso tutti per le proprie qualità, lontane dalla descrizione che della nostra generazione fanno stancamente grandi media e stanca sociologia. Ho visto un movimento che ha fischiato Beppe Grillo ed applaudito il Presidente Giorgio Napolitano. Non siamo la generazione dell'antipolitica, tutt'altro.

Diverso dai movimenti che hanno costellato gli ultimi 10 anni di vita di questo Paese, ma che ha avuto chiari i propri obiettivi: difendere il mondo della scuola, dell'università e della ricerca per difendere il proprio futuro, rivendicando una redisrtibuzione delle risorse diversa da quella praticata dal Governo, disposto a caricarsi sulle spalle il prezzo della Bad Company Alitalia ma sempre pronto a scaricare questa generazione, l'anello debole della catena, quello che rischia più di ogni altro di pagare il prezzo di una crisi finanziaria che si sta rapidamente trasformando in crisi sociale.

Una crisi che è nata sopra le nostre teste, maturata nel silenzio e fragorosamente esplosa, di fronte a cui, tra tanti, risalta un interrogativo: chi ne pagherà i costi? Tutti, in un patto di solidarietà che non peggiori i già ingiusti ed immobili assetti sociali di questo Paese, o solo alcuni, come in un patto silenzioso tra i veri insider del nostro sistema, le vere caste che sembrano avere già deciso che scatenare un guerra tra poveri sia il modo migliore per autoconservarsi. E allora via alla guerra tra lavoratori dipendenti e precari, tra chi perde potere d'acquisto e chi non ha la minima certezza del proprio domani.

Dalla nostra generazione è arrivata la prima risposta, la prima parola non balbettata, la parola di chi vive nel tempo delle grandi paure e delle passioni tristi, di chi ha conosciuto tutti i significati della parola interdipendenza e ne ha capito il principale: non è possibile affrontare i problemi della nostra quotidianità senza incrociare le grandi scelte strategiche di chi oggi governa il nostro Paese, l'Europa, il mondo.

Ma una generazione che continua tenacemente a coltivare il sogno conservatore e rivoluzionario di potere essere autonoma nella scelta dei percorsi di vita di ciascuno. E che nella negazione di ciò che per era scontato per i nostri genitori ha forgiato il proprio punto di vista sul mondo.

Un lavoro, una casa, una famiglia. Sta tutto qui questo sogno negato.
Ma negato da chi e perchè? E' questa la domanda cui rispondere per trovare la nostra via d'uscita. Negato da chi ha edificato questo Paese in funzione dei propri interessi, negato da una generazione, che governa ancora questo Paese in ogni suo ambito, cresciuta sulla cultura dei diritti senza responsabilità. Che per sé ha chiesto ed ottenuto quasi tutto, ma che non si è mai posta il problema di cosa sarebbe successo a chi sarebbe venuto dopo. Vittorio Foa, che è stato uno dei più controversi interpreti del nostro tempo, in un suo libro, Passaggi, scriveva: “due sono i vuoti della democrazia di cui si parla pochissimo. Essi riguardano il tempo e lo spazio. Così come la conosciamo anche se espressa nel modo più corretto di volontà collettiva, comprende pur sempre solo i cittadini di qui e di oggi, salvo poche irrilevanti eccezioni. Il potere di cambiare il destino dei non nati e dei cittadini del futuro è oggi più grande che in passato”. Essere consapevoli di questo significa davvero superare il '68, superare l'epoca in cui la conquista di diritti è avvenuta solo per chi era qui ed ora. Capirlo significa porre davvero le basi per una cultura politica innovatrice, che parla il linguaggio del futuro.

Fuor di retorica noi paghiamo il prezzo il conto che questa cultura ci ha lasciato: il terzo debito pubblico del mondo che rende difficilissimo pensare ad un welfare che non si limiti e redistribuire ricchezza ma che offra opportunità di mobilità sociale, un sistema previdenziale squilibrato, che penalizza chi sceglie di rischiare e chi, a rischiare, è costretto da un mercato del lavoro che consegna tanti di noi ad una giovinezza eterna, con la falsa promessa del lavoro flessibile e ben remunerato sulla base delle competenze di ciascuno e che diventa poi l'incubo di chi vive nell'incertezza del proprio futuro e nella certezza di uno stipendio da fame.


Noi possiamo provare a riscattarci. I Giovani democratici non sono e non saranno il sindacato dei giovani né il movimento dei giovanilisti. Se davvero scegliamo di associare diritti e responsabilità sapremo essere i migliori garanti dell'interesse collettivo di un Paese, come delle nostre comunità. Sperando di essere così utili alla causa nobile e difficile del Partito democratico.

Ci riscatteremo se sapremo anteporre le politiche alla politica. Ci riscatteremo se saremo in grado di sfatare, intanto, uno dei luoghi comuni più diffusi degli ultimi 15 anni. Se sapremo dire che non si può più avere paura della spesa pubblica, se sapremo urlare che non basta il mercato a consentire a ciascuno di costruire in maniera autonoma il proprio percorso di vita. Basta con la retorica neoliberista del mercato, basta con il mito delle riforme a costo zero.

Il problema è, semmai, che in Italia la spesa pubblica è sempre rivolta ad accontentare interessi corporativi, categorie che ripagheranno coi loro consensi alla prossima tornata elettorale, che divorano risorse senza produrre sviluppo. Investire su scuola università e ricerca, significa invece fare un investimento che è destinato a dare i propri frutti nell'arco di quindici anni, ma con una rendita di otto volte quello che si è investito.

Rispondere a questa sfida significa cominciare a guardare alla politica in maniera nuova, diversa da quella che si svolge tra le aule parlamentari ed il dibattito sui quotidiani. Significa restituire alla politica la parola Europa, intesa come unico spazio sociale, economico e politico all'interno del quale è possibile tenere insieme sviluppo, coesione sociale e democrazia. Recuperare al nostro lessico l'idea di modello sociale europeo, di economia sociale di mercato che è la cifra vera di un modello di sviluppo non disumanizzante, capace di dare forma a quell'Umanesimo integrale di cui Jaques Maritain parlava e che è il più importante punto di contatto tra la cultura socialista e quella cristiana.

Vale tanto più per noi, che viviamo nell'epoca in cui di Europa e Mediterraneo una generazione, la nostra generazione, sta diventando cittadina. Ampliare i programmi di mobilità eurpoea, farne lo spazio in cui si possa vivere, studiare e lavorare significa creare le condizioni cambiare anche il nostro Paese.

Rispondere a questa sfida significa restituire il proprio significato alla parola territorio. Troppo spesso la parola territorio è utilizzata come oggetto contundente nel nostro dibattito, ma forse merita una riflessione più attenta. Dal territorio, dalle autonomie locali, dalle scuole e dalle università dell'autonomia, passa oggi per noi, Giovani democratici, la sfida più alta ed a noi più congeniale.

Territorio non è una sommatoria di circoli e strutture burocratiche, territorio è progetto di siluppo, capacità di produrre in maniera autonoma proposta politica. Dalle autonomie passa l'erogazione del welfare, dalle autonomie passa la capacità di università, imprese, forze sociali di affrontare le sfide del mercato globale, dalle autonomie passa la possibilità di fare in Italia politiche di integrazione che ci allontanino dal rischio di risvegliarci nelle banlieue di Parigi.

Stare dentro questi luoghi di decisione significa per un'organizzazione giovanile diventare determinante. Significa contribuire in maniera determinante a cambiare il Paese. E per starci, occorre che la nostra, anche la nostra, sia un'organizzazione davvero federale, che permetta ai territori di esprimere davvero la propria autonomia politica, che è l'antidoto vero alle ricette burocratiche che vorrebbero dividere anche il nostro partito tra nord e sud. Come fossero elementi contrapposti o contrapponibili, interessi diversi e necessariamente confliggenti.

Territorio significa anche capacità di contribuire alla costruzione di un'agenda politica nazionale all'altezza dei conflitti che scorrono nelle vene della società italiana e che non siamo in grado di leggere.

E forse queste difficoltà sono la ragione più profonda della crisi di credibilità che sta investendo molte delle amministrazioni guidate dal nostro partito. Credo che, di quella che in molti chiamano questione morale e su cui la stampa sta costruendo una violenta campagna ai danni del Pd, questa sia la radice più profonda. Le vicende giudiziarie, partendo dalla presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio, avranno il loro corso, ma il problema resta in piedi. Ed è dato dalla carenza di progetto politico, di sensibilità al bene comune, che finisce per far prevalere interessi particolari, piccoli potentati locali, rendite elettorali di carattere personale. Il Partito democratico non può permetterselo e deve dare una risposta forte.

Non ci interessa affermare diritti di successione dovuti all'età anagrafica, ci interessa avere un partito nel quale ciascuno possa essere misurato per quello che vale, per la capacità che ha di costruire consenso attorno alle proprie idee. Solo così un partito si rinnova. E noi possiamo dare il nostro contributo, proprio partendo dalle prossime tornate amministrative, nelle quali dovremo essere in campo.

Dipenderà da noi l'essere il successo o l'insuccesso del Partito democratico. Veniamo da mesi di tortuosità regolamentari, che ci hanno tolto tempo ed energie. Ma oggi siamo qui. Le nostre primarie non sono state, nonostante le difficoltà, un fatto semplicemente burocratico. Sono state un momento di partecipazione intenso, talvolta conflittuale, come è giusto che sia in democrazia. Dobbiamo capire insieme come vogliamo spendere questo patrimonio di partecipazione e fiducia, che organizzazione vogliamo fare. E dobbiamo fare in fretta. So che la convocazione di questa prima assemblea nazionale per oggi ha suscitato qualche perplessità, ma anche una settimana è ormai preziosa. Da oggi cominceremo a costruire un'organizzazione diffusa, fatta di capacità di stare sul territorio e nei luoghi della nostra generazione. Badate, non è un fatto puramente organizzativo. Non lo è perché più saremo in grado di darci una forma e di rappresentare sensibilità e territori, più saremo distanti da quella caricatura che in molti si sono divertiti a fare di noi, dipingendoci come la copia in sedicesimo del nostro partito.

Dobbiamo investire nell'associazionismo studentesco, negli spazi larghi delle organizzazioni plurali. Dobbiamo mettere in rete le esperienze dei nostri giovani amministratori e le buone pratiche che ogni territorio sviluppa. Dobbiamo partire da subito con l'iniziativa politica diffusa sul diritto al sapere, sul diritto alla casa, su quello alla mobilità. Dobbiamo stare da subito sui temi di frontiera che condizioneranno il futuro del Paese. Dobbiamo restituire significato alla parola cittadinanza nel momento di massima crisi degli stati nazione. E bene ha fatto, ieri, Walter Veltroni, a porre il tema del voto ai sedicenni, perchè anche così si cambia un paese.

Siamo la prima generazione di democratici, lo saremo meglio e di più se sapremo custodire gelosamente la nostra autonomia, se sapremo offrire politica con tutti gli strumenti di cui siamo capaci, se sapremo parlare lo stesso linguaggio fatto di libertà, di passione politica, di partecipazione. Che non è solo mettere una x su una scheda elettorale, è contribuire al dibattito e fare battaglia delle idee.

Non saremo un'organizzazione di soldati, pronti ad obbedire agli ordini ciascuno del proprio capo, saremo un'organizzazione di guerrieri, di ragazzi che pensano, scelgono e danno battaglia.

Per riprenderci il nostro diritto fondamentale, quello che ha mosso da sempre le forze vere della storia. Il diritto alla speranza.

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